TORINO — E' finita ieri la squalifica di Paolo Rossi, due anni senza giocare il calcio ufficiale, due anni nella parte del ragazzino ingenuo e fesso, due anni spesi anche a preparare questo momento, il rientro domenica prossima a Udine. E adesso, a poche ore dal fischio dell'arbitro, un profondissimo spiegabilissimo senso di vuoto. A Paolo Rossi mancano le battute, tutto è già stato detto troppe volte, ripeterlo non piace, di nuovo ci dovrebbe essere soltanto il gioco, il toccar palla per la Juventus. Come l'intellettuale secondo Marcello Marchesi («non ho niente da dire, ma lo devo dire»). Rossi ha fronteggiato interviste inquisitorie, si è vuotato di parole, di concetti. Un concetto gli è rimasto dentro, come inciso, anzi scolpito:
«Io non sono un pentito, e neppure un redento. Sono un innocente che è stato fregato. Dunque non ho espiato un bel niente. Ma al tempo stesso non voglio vantare crediti. E' andata cosi, amen. Lo dico senza essere fatalista, lo dico perché non c'è altro da dire. Sono molto preoccupato del futuro, la Juventus deve vincere il campionato e se non lo vince magari è colpa mia, la Nazionale deve fare bene in Spagna e se non fa bene magari è colpa mia. Conto sulla gente, me la sento sempre vicina, raccolgo lo stesso amore d'una volta. Darò tutto senza voler dimostrare nulla. Non mi riguardano i casi di Giordano e Manfredonia, non ho rivincite da prendermi. Non eseguo nemmeno l'esercizio del perdono. Basta, voglio che questi due anni spariscano. Dico amen, ma non perché sia alla fine di una una preghiera».
E' pallido, ha una brutta barba di tre giorni, è pieno di brufoli. Intorno negli allenamenti, ravvisa silenzi strani, o sonorità troppo gagliarde per essere naturali: nel pubblico, nei compagni.
«So bene bene di cosa tutti vorrebbero parlare, e un po' riescono a parlare. Non vorrei che certe mie fughe, certi miei silenzi, venissero scambiati per paura, per snobbismo. Io dico semplicemente che questi due anni non contano più nulla, è inutile rimetterli in piedi adesso. Sono ancora giovane, nella vita non mi va male, amo mia moglie, ho dei lavori extracalcistici bene avviati e non troppo assorbenti. Sono nella più forte squadra italiana e la Nazionale mi ha tenuto il posto, facendo bene anche senza di me. Questo conta».
Si aspetta manifestazioni speciali, telegrammi? Magari un telegramma da Graziani, l'unica voce critica, onestamente critica, sul suo ritorno azzurro?
«Niente, spero che non accada niente di tutto questo. Stacco il telefono per tante ore. Penso ad allenarmi, a studiare, voglio diventare ragioniere. Non ho quantificato la fregatura, cioè non ho calcolato quanti milioni ho perso. Ho fatto calcoli morali, la gente mi sta aiutando a crederli ancora attivi. Penso che i miei nemici siano pochi, e quasi tutti fra gli invidiosi cronici. Non ho paura neppure delle cerimonie di domenica. Non ho feticismi personali, riti da compiere. Neanche il segno di croce, quello meccanico che molti si fanno. Non credo che la gente, domenica a Udine, riempirà lo stadio per me: è un match importante per lo scudetto nostro e la salvezza dei friulani, sarebbe stato comunque il tutto esaurito».
E' l'anno di tante celebrazioni, nella Juventus: la resurrezione di Virdis, il primo gol di Galderisi, i quarantanni di Zoff, adesso il rientro di Rossi, poi quello di Bettega. Quasi una barba.
«Non vedo vedo cosa ci sia da celebrare per il fatto che uno squalificato può tornare in campo. Vorrei che si celebrasse, casomai, la mia partita per quella che sarà, e basta. L'allenatore Trapattoni parlerà con me del match soltanto alla vigilia, io manco so se entro in campo subito, oppure se aspetto in panchina. Mi sta bene tutto, sono un professionista».
Giocherà subito. Amici gli mettono in mano letterine d'auguri, ragazzine gli chiedono l'ultimo autografo da non giocatore. Tifosi spiritati gli elencano i loro disagi per il viaggio di domenica, partenza alle due, piena notte, da Torino.
«Verranno a Udine da Prato i miei genitori, mio fratello. Verrà Simonetta, rimarremo da quelle parti lunedi, ho amici laggiù, del gruppo di Zanone, ma ci sarei rimasto anche senza niente da dover festeggiare».
Vive a Torino in una bella casa del centro, inquietata da molti specchi. Lui, Simonetta, un setter. Nella casa abita anche una importante attivissima estetista-massaggiatrice, incontrano Rossi per le scale, in ascensore. I signori ricchi che magari sono suoi tifosi, e domenica pagheranno un posto in tribuna quanto una seduta presso l'estetista. Paolo ha fatto in fretta a ricostruirsi itinerari, amicizie nella città che fu sua quando era ragazzino. c
«Sto bene in tanti sensi, Torino e Juventus e lavoro e famiglia. Non mi hanno disfatto questi due anni, non mi distruggeranno gli ultimi due giorni».
Lui appare sicuro, il prezzo di questa sicurezza non lo sappiamo. Ha pagato per una colpa, sia chiaro, anche se la parola «redento» lo fa arrabbiare, preferisce la parola «fesso».