lunedì 31 luglio 2023

17 Maggio 1987: Juventus - Brescia

É il 17 Maggio 1987 e Juventus e Brescia si sfidano nella quindicesima giornata del girone di ritorno del Campionato di Calcio di Serie A 1986-87 allo Stadio 'Comunale' di Torino.

La Juventus é Campione d'Italia in carica mentre il Brescia deve salutare la Serie A dopo un campionato disputato sempre sul filo del rasoio. A fine campionato i bianconeri saranno secondi dietro al Napoli (per la prima volta scudettato).

Questa partita é ricordata come l'ultima partita di Michel Platini in bianconero. Un doveroso omaggio a chi ha scritto pagine indementicabili della Storia Bianconera.

Buona Visione!


juve


Campionato di Serie A 1986-1987 - 15 ritorno
Torino - Stadio Comunale
Domenica 17 maggio 1987 ore 16.00
JUVENTUS-BRESCIA 3-2
MARCATORI: Serena A. 4, Gritti rigore 6, Brio 22, Iorio 41, Bonetti I. 78

JUVENTUS: Tacconi, Favero, Caricola, Bonini, Brio, Scirea, Mauro (Bonetti I. 62), Manfredonia, Serena A., Platini, Buso (Briaschi 68)
Allenatore: Rino Marchesi

BRESCIA: Aliboni, Ceramicola, Branco, Sacchetti, Chiodini, Occhipinti, Bonometti, Zoratto (Turchetta 81), Iorio, Beccalossi, Gritti
Allenatore: Bruno Giorgi

ARBITRO: Lo Bello R.


Ma l’ultima giornata di campionato, nonostante non conti nulla ai fini della classifica, resterà nella storia juventina. Difatti, quel giorno, è l’ultima volta che Michel Platini indossa la maglia numero dieci bianconera. Una leggera pioggerellina saluta l’ultimo giro di campo di Le Roi Michel. Ma non è solo la pioggia che bagna gli occhi del fuoriclasse transalpino. La commozione regna sovrana, anche i tifosi capiscono che stanno salutando uno dei più grandi campioni di sempre della storia juventina. E, soprattutto, c’è la convinzione che la ricostruzione sarà lunga e tribolata. Tanto è vero che passeranno ancora tantissimi anni prima che la Juventus potrà nuovamente laurearsi campione d’Italia. E, nemmeno a farlo apposta, ricomincerà a vincere quando all’orizzonte apparirà un altro grande numero dieci: Alessandro Del Piero.

tratto da: Il Pallone Racconta 

Michel Platini, è quello di oggi il più triste giorno della tua vita di calciatore? «Non scherziamo, per favore. Il giorno dell’Heysel è stato quello in cui mi si è rotto qualcosa dentro, in cui è finita una certa idea del football: C’erano trentanove morti, lì, intorno ad un evento calcistico». E quale è stato allora il giorno più bello? «Semplice: il 22 giugno 1972; quando a Nancy ho cominciato la mia vita vera di calciatore, firmando il contratto pre–professionistico. Giocai, segnai subito un goal da centrocampo, capì che potevo fare strada». Quando hai deciso di smettere? «Lo scorso settembre. Ero tornato dal Mundial a pezzi fisicamente, avevo faticato a rimettermi in ordine, capii che al massimo potevo andare avanti un anno ancora». Ma qui dicono che tu potresti fare benissimo un altro paio di campionati. «Il fatto è che io concepisco il calcio in un certo modo, diciamo pure personale, artistico: O riesco a dare cose grandi, o non ci sto più. Non mi va la ba–balle» (lo ha detto in francese, significa il giochicchiare). Ti senti in debito o in credito con la Juventus? «Mi ha fatto vincere tutto, è più quello che lei ha dato a me che quello che io ho dato a lei». Non vorresti essere campione del Mondo, come Maradona? «Vorrei essere un ragazzino che comincia a giocare, e che sa che può fare belle cose, e migliorarsi per tanti anni». Cosa farai adesso? «Adesso come fra un minuto, come domani? Non so. Rimango a Torino sinché i miei figli non hanno finito la scuola. Poi vacanze. Poi Nancy, è casa mia». Non giochi un match di addio con la Nazionale di Francia? «Non credo proprio. Dovrei scendere in campo fra un mese, anche se continuerò ad allenarmi non avrò la tensione, giusta per, una partita». Però metterai ancora le scarpe da calciatore? «Senz’altro. Starò in mezzo al calcio, e cercherò di fare anche del moto. E poi qualcuno mi sta organizzando il giubileo». E fuori dal calcio? «Ho tante cose interessanti da fare, alcune da mandare avanti, altre da inventare. Ho grossi progetti, televisivi, con La Cinq. Non credo che i giornalisti siano pochi, comunque vorrei provare a fare giornalismo anch’io». Ti piace ricordare qualche amico, giocatore o no? «Tanti ne ho, in tanti posti. I non giocatori sono amici miei e basta. I giocatori... beh, sono tutti amici». Cosa ti han fatto capire cinque anni d’Italia? «Che il calcio non è più mio. Sono arrivato dalla Francia con il gusto della festa, del gioco fine a se stesso, qui ho fatto in fretta a imparare che conta il risultato, che sei qualcuno se fai il goal. Lo prova questo mio ultimo anno. È stata una lezione anche dura, ma utile per avere successo nel calcio professionistico, cioè nel mio mestiere. Ho imparato che qui il calcio non è mio, è dei tifosi, peraltro con me sempre cari, juventini e no, e di voi giornalisti. E bisogna sempre vincere, partecipare proprio non basta». Adesso lasci questa Italia, per la tua Francia decoubertiniana... «Posso lasciare quelle coppe vinte, non gli amici, che comunque è come se stessero sempre con me». C’è stato un ultimo scambio di battute fra te e l’Avvocato? «Non mi pare. Casomai ho fatto con lui una battuta contro di voi, che ci sembravate aggressivi. Ma non mi sono proprio sentito nel giorno ideale per fare dell’ironia».
È il giorno “magico” di Platini. Non manca nessuno al momento del commiato. In tribuna anche l’avvocato Giovanni Agnelli, che ha voluto Michel in bianconero e che negli ultimi tempi aveva diradato le sue presenze allo stadio, annoiato da una Juve che non lo divertiva più. Ha incontrato Platini prima della partita; l’ha salutato una seconda volta nell’intervallo. Spiega: «Anch’io ho saputo con sicurezza solo cinque giorni fa che avrebbe smesso. Forse neppure lui aveva le idee chiare, o più probabilmente ha voluto nascondere a tutti la verità. Di una cosa ero però sicuro: non avrebbe mai lasciato la Juve per giocare in un’altra squadra. Il suo addio al calcio sarebbe stato completo». Una decisione che in realtà Platini aveva preso già a settembre ma che era riuscito tenere tutta per sé. 

tratto da: Archivio La Stampa 

 

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